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La Vallja

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La Vallja: una danza per la vita

Tra le più suggestive espressioni della cultura popolare degli Albanesi di Calabria è da porre la Vallja, che rievoca la gloriosa vittoria riportata contro i Turchi il 24 aprile 1467 dal condottiero Giorgio Castriota (Gjergj Kastrioti), meglio noto come Skanderbeg (che significa “Principe Alessandro”, cioè emulo di Alessandro Magno) e che si svolge a Civita, a Frascineto e in pochi altri paesi il martedì dopo la Pasqua.
Strenuo difensore della libertà civile e religiosa dell’Albania, Skanderbeg lottò a lungo per difendere la patria e l’Occidente stesso dal pericolo ottomano, ma alla sua morte, nel 1468, la situazione precipitò e molti suoi conterranei furono costretti a lasciare il loro paese natale; dopo le prime migrazioni, legate all’aiuto militare che gli Aragonesi avevano chiesto a Castriota contro gli Angioini, la vera e propria “diaspora” si verificò a seguito dell’invasione dell’Albania da parte dei Turchi.

Ma l’azione del “Principe Alessandro” aveva fatto guadagnare al suo paese la gratitudine dei potenti d’Occidente; perciò fu accolto con benevolenza l’insediamento di comunità di albanesi in varie zone del Regno di Napoli. Gli Italo-Albanesi sono oggi circa ottantamila, sparsi in 7 regioni della penisola e in 51 località; la concentrazione più alta si registra in Calabria, in particolare nella provincia di Cosenza, con ben 32 comuni, situati tra l’altopiano silano e il Pollino. Custodi gelosi della propria identità, gli Arbëreshë conservano la lingua d’origine così come le tradizioni culturali e religiose (sono cristiani di rito ortodosso). Con ciò sono chiarite le origini di una tradizione che potrebbe apparire come mero fenomeno di folklore, una sorta di messa in scena per stranieri (lëtinijtë), avulsa da radici profonde e motivazioni autentiche: la Vallja, l’armoniosa danza circolare eseguita in gruppo da uomini e donne che cantano in coro è, invece, la rappresentazione dell’identità di un popolo.

Vestiti degli splendidi costumi tradizionali (llambador), in un tripudio di colori e di ori, unendosi con le mani o con i fazzoletti, i danzatori, guidati ad ogni estremità da un cavaliere “portabandiera” (flamurtar), si dispongono in semicerchio. Il gruppo, ulteriormente frammentato in gruppi di sei o di dodici danzatori, procede in fila, lentamente, con andatura elegante e sinuosa, fino a quando un flamurtar chiude il cerchio imprigionando al suo interno un non albanese, liberato solo dietro il pagamento di un “riscatto” (una generosa bevuta).
In passato, questo “accerchiamento” simboleggiava, forse, l’atavica contesa, sotterranea ma non troppo, con le comunità locali; più probabilmente, questa danza, lirica e piena di passione, vuole solo rievocare la vittoria contro i Turchi. Il gruppo di danzatori si sposta di continuo, come una schiera di combattenti durante la battaglia; a volte esitante, a volte repentino, con evoluzioni improvvise e manovre avvolgenti, che forse ricordano le tattiche militari di Skanderbeg, il circolo si apre accerchiando il “nemico”, poi, di nuovo in fila, il gruppo si snoda per tutto il paese, fino a giungere nella piazza, dove la danza ha termine.

Il canto è intessuto di melodie cadenzate, come nenie struggenti che accompagnano il sonno del bambino; rimpianto e nostalgia per la patria perduta nelle tristi rapsodie che mettono in scena il dolore profondo di una separazione e i valori condivisi di un’intera comunità: le donne intonano la storia di “Kostantino e Jeruntina” (Kostantino che torna dalla morte pur di onorare la parola data, la besa, uno dei principi fondanti della cultura albanese), mentre gli uomini, sul far della sera, cantano “Skanderbeg una mattina”, una melodia che narra le gesta dell’eroe durante la battaglia di Kruja. Canti antichi, dunque, rievocati per secoli in un rito che, di anno in anno, rinsalda le radici di un popolo che ha deciso di non morire.